Se il virus è classista
di Laura Solieri
Oltre a portare morte, sofferenza e gravi danni all’economia del nostro Paese, la pandemia ha mostrato le drammatiche carenze e distorsioni nel nostro sistema sanitario e di welfare territoriale e ha inoltre reso evidente la débâcle del modello residenziale per tutti i soggetti fragili. Di questo è altro parla il libro “Un virus classista. Pandemia, diseguaglianze e istituzioni” (Alpha Beta Verlag – Collana 180) di Benedetto Saraceno, Segretario Generale del Lisbon Institute of Global Mental Health, già direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Abuso di Sostanze della Organizzazione Mondiale della Salute, che verrà presentato a Màt il 18 ottobre dalle ore 18 a La Tenda a Modena (viale Monte Kosica angolo viale Molza) insieme a “Quale psichiatria?” di Franco Rotelli.
Abbiamo incontrato Saraceno in anteprima per indagare con lui il grave deficit di democrazia sia nella salute sia nella sanità emerso con la pandemia, un deficit che come lui sostiene va colmato mediante la promozione e lo sviluppo di processi di “democrazia dal basso”: una medicina e un welfare integrati e rafforzati, una reale trasparenza dei sistemi sanitari, la riappropriazione del diritto alla salute da parte delle comunità locali.
Il Coronavirus ha reso tutti consapevoli della necessità di avere una sanità pubblica forte e qualificata, di prossimità: quali sono per lei, ora, i passi più urgenti da fare, da mettere in pratica verso questa direzione?
Ci sono temi specifici e precise aree che necessitano di informazione, mobilizzazione e azioni concrete. Ne citerò tre: primo, il potenziamento delle reti di assistenza sociosanitaria territoriale attraverso il Distretto Socio-Sanitario inteso come struttura forte di governo dei servizi territoriali e in cui sono inseriti tutti i professionisti delle cure primarie, con particolare attenzione ad una radicale riqualificazione del ruolo dei medici di medicina generale. Secondo, lo sviluppo di soluzioni che garantiscano l’assistenza alle persone non autosufficienti prioritariamente nel proprio contesto di vita. Contestualmente il superamento definitivo di tutte le istituzioni destinate a persone con disabilità e/o non autosufficienza che siano assimilabili a istituzioni totali con la riconversione delle strutture residenziali di ricovero in autentiche soluzioni abitative, anche se assistite. Terzo, lo sviluppo di progetti di cura personalizzati, attraverso l’uso del budget di salute, per le persone con problemi di salute mentale e la contemporanea promozione del superamento delle strutture di residenzialità protratta e l’abolizione delle pratiche quali la contenzione meccanica.
Quali sono le carenze più drammatiche e le distorsioni più gravi che ravvede nel nostro sistema sanitario e di welfare territoriale?
La pandemia ha mostrato alcune fragilità del nostro sistema sanitario e ha anche smontato alcuni miti duri a morire come quello della eccellenza della sanità lombarda. La grande crisi delle RSA con una mortalità di anziani drammatica e in moltissimi casi evitabile ha mostrato che il modello istituzionale che concentra le persone in strutture spesso inadeguate, a cavallo fra il sociale e il sanitario, non risponde ai bisogni umani, sociali, psicologici e sanitari delle persone. Il letto in ospedale o nelle RSA è stata spesso la sola risposta che il sistema ha saputo fornire. Il letto rappresenta “la risposta” prevalente alle condizioni croniche, soprattutto quelle psichiatriche: il termine “residenzialità” è divenuto dominante in tutti i sistemi sanitari regionali ove abbondano forme diverse di residenze, più o meno protette, più o meno manicomiali, pubbliche o private o private convenzionate. Ma, quella residenzialità non allude a un luogo di vita integrata, sociale e socializzata, a un luogo che sia parte reale della comunità circostante bensì allude alla presenza di letti utilizzati secondo la logica dell’ospedale. Letti per vecchi, letti per matti, letti per tossicodipendenti, letti per disabili fisici e psichici. Il letto sembra essere l’unica risposta resa disponibile a chi invece non avrebbe bisogno di un letto (se non per dormire) ma di vita. Ecco allora che i cosiddetti “cronici” sono destinati ad “abitare” il letto come se esso fosse l’unica dimensione della cura e della riabilitazione. Lo sviluppo di un sistema di medicina territoriale e di una medicina di base “forte” avrebbero dovuto, e da ben prima della crisi pandemica, costituire una scelta prioritaria delle Regioni. E non è stato così in moltissime regioni.
Lei giustamente ha detto che per quanto riguarda i determinanti sociali non si chiede agli psichiatri di abolire la povertà o le guerre, ma di capire i bisogni delle persone fragili in modo che possano attivarsi nelle alleanze del territorio, nelle reti istituzionali e amministrative. Le chiedo: come innescare queste alleanze?
Si tratta di modificare lo sguardo della psichiatria che è ancora troppo soltanto guidato da un modello biomedico. I bisogni delle persone con disabilità mentale sono complessi e non si esauriscono con risposte soltanto cliniche. Le persone hanno bisogno di socialità, hanno bisogno di abitare meglio, di lavorare, di guadagnare. Una buona psichiatria deve essere capace di offrire risposte complesse a domande complesse. Di fronte a una madre depressa, che vive da sola con due bambini, e con scarse risorse economiche, un buon servizio capisce che farmaci o psicoterapie sono spesso risposte più che inadeguate. Un intervento di sostegno economico, un aiuto nell’accompagnamento dei bambini a scuola, un sostegno alla madre attraverso momenti di socialità al femminile sono risposte a micro-determinanti sociali che investono un individuo. L’impotenza legittima della psichiatria di fronte a macro-determinanti sociali come guerre, povertà o migrazioni non può divenire la scusa per non intercettare determinanti sociali che agiscono come fattori di rischio per uno specifico individuo che può e deve beneficare di un intervento psichiatrico intelligente e complessivo.
Il vero problema dell’epidemia è che rende ancora più ampi i divari e le disuguaglianze: in Italia sappiamo che sono tante le questioni ancora aperte, in modo particolare in tema di Salute Mentale, evidenziate da questo periodo storico. Nel resto del mondo, può farci qualche esempio, magari in positivo, di come viene gestita la situazione, di come magari viene “sfruttato” il Covid per lavorare meglio sulla salute mentale?
La risposta onesta è “non lo so” e non soltanto per disinformazione ma perché probabilmente è troppo presto per valutare seriamente strategie messe in atto per far fronte ai problemi posti dalla pandemia (essenzialmente la perdita del contatto personale fra équipes curanti e pazienti) ai sistemi di salute mentale dei vari paesi. Tuttavia, sono convinto che le risposte migliori, più intelligenti ed efficaci vengono da quei servizi già eccellenti prima della pandemia (e non necessariamente rappresentativi dell’intero paese in cui operano). La buona qualità non si improvvisa perché c’è una pandemia ma là dove già esiste essa avrà la capacità di rendere flessibili le risposte, di inventare strategie innovative grazie ad una consuetudine precedente la pandemia con innovazione, flessibilità, capacità di rispondere ai bisogni delle persone.
Qual è e come è cambiata nel tempo, nel corso della sua carriera, la sua concezione di “democrazia dal basso” e di “riabilitazione”?
Io credo che cambiamenti in positivo ce ne sono stati da quando ero un giovane psichiatra che imparava a fare psichiatria da Franco Rotelli a Trieste. La vera questione non è tanto la evoluzione positiva di nozioni e pratiche della Riabilitazione quanto più la scarsa diffusione di queste buone pratiche innovative. La Riabilitazione fatta nei vecchi ospedali psichiatrici o nei deprimenti ateliers di riabilitazione era una beffa e non una reale azione che promuoveva abilità e inclusione sociale. In un mio libro ho definito quella falsa riabilitazione “intrattenimento”. Oggi sappiamo che riabilitare significa ricostruire insieme all’utente dei percorsi individuali che gli consentano di crescere, di imparare, di abitare, di produrre autostima, valore sociale, denaro, scambi, relazioni sociali. Oggi sappiamo che fare posacenere con il pongo non è riabilitazione ma la manifestazione della cultura psichiatrica manicomiale. Ma ahimè sappiamo anche tale falsa riabilitazione non è scomparsa e anzi continua in troppe parti del mondo, in troppo servizi di salute mentale. Quindi l’evoluzione della nozione e della pratica della Riabilitazione c’è stata indubbiamente ma ha investito soltanto pochi luoghi di eccellenza, molti nell’Italia del dopo riforma, pochi nel resto del mondo (a Lille in Francia, a Oviedo nelle Asturie, a Siviglia in Andalusia, a Birmingham nel Regno Unito e in Irlanda, in alcuni centri dell’Australia, in Brasile, nella repubblica Dominicana ma queste sono gocce d’acqua nel grande oceano manicomiale che ancora caratterizza la psichiatria).Per quanto concerne la Democrazia Profonda, un’espressione introdotta dall’antropologo indiano Arjun Appadurai per indicare la costruzione di processi democratici dal basso, essa è una esperienza di costruzione di cittadinanza. È necessario, dunque, progettare nuove forme di salute locale dal basso, anche a partire da alcune esistenti esperienze virtuose come le Microaree Triestine e le Case della Salute. Il Manifesto “Salute bene comune – per una autentica Casa della Salute” è una iniziativa iniziata qualche anno fa a partire da alcune esperienze italiane e ispirato dalla “Casa della Carità” di Milano e dalla Fondazione “Santa Clelia Barbieri” di Porretta Terme (Bo). L’idea si sostanzia nella realizzazione di una Casa della Comunità non identificabile in una semplice Casa della Sanità, ma in una vera a proprio luogo della e per la Comunità: luogo dell’accoglienza, luogo della partecipazione, luogo di superamento delle diseguaglianze. Insomma, un luogo dove tutti gli attori della convivenza (dalla scuola al lavoro, dai servizi sanitari a quelli sociali, dalle Istituzioni al volontariato e infine tutti i cittadini) si ritrovano a progettare e a gestire insieme il benessere presente e futuro della comunità stessa. I medici di Medicina Generale devono imperativamente operare all’interno delle Case della Salute o nella Casa della Salute la dimensione “salute” è in equilibrio con “altre” dimensioni psicosociali che hanno a che fare con la dimensione del “care”, della inclusione sociale e dei diritti. Le Microaree invece sono una esperienza nata a Trieste, negli anni 2005-2008. L’obiettivo delle Microaree è quello di coniugare buone pratiche sociosanitarie con forme reali di democrazia partecipata: le persone non sono più soltanto pazienti, utenti di prestazioni sociosanitarie ma soggetti attivi nel proprio progetto di salute. La Microarea offre interventi sanitari e sociali intersettoriali in aree piuttosto piccole (1000-2500 abitanti) e in essa agisce una pluralità di soggetti, pubblici e del privato sociale, che, con la regia del pubblico, perseguono il bene della collettività e, dunque, esercitano complessivamente una funzione pubblica.