di Fabrizio Starace
Come Cavicchi sottolinea, non v’è traccia di Salute Mentale nel PNRR né nel Decreto 77 di ridefinizione dell’assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale. Questa vistosa assenza conferma l’erronea, diffusa convinzione che si tratti di un’area della sanità pubblica “autosufficiente”, perpetuandone in tal modo le caratteristiche di riserva indiana.
17 OTT –
Nel suo ultimo lavoro “Oltre la 180” Ivan Cavicchi cita ampiamente il lavoro di approfondimento che la Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica (SIEP) conduce da anni sottoponendo ad analisi secondaria i dati raccolti dal Ministero della salute attraverso il Sistema Informativo Salute Mentale (SISM). Di questo gli siamo grati, come sempre quando chi propone tesi riformatrici poggia le sue considerazioni su dati concreti.
In quelle informazioni, che documentano in modo incontestabile la fase critica in cui versa il sistema di cura per la Salute Mentale (SM), Cavicchi individua le ragioni per andare “oltre la 180”, sostenendo che un atteggiamento difensivo dell’enclave psichiatrica generata dalla Riforma del ’78 sia funzionale ad alimentare la regressività culturale che pervade il mondo della SM.
Se le cose vanno male – afferma Cavicchi – non è per la carenza di risorse e personale; anzi, ribaltando il nesso causale tra queste affermazioni, “le risorse e il personale mancano perché le cose vanno male”.
La provocazione è solo apparente e dà conto di due aspetti dello stesso fenomeno, embricati in un rapporto circolare del quale è poco utile indagare le cause prime. Ispirati tuttavia a quel pragmatismo cui Cavicchi richiama continuamente il lettore, non possiamo non rilevare che la “regressività” del sistema (ossia la circostanza in cui “la produzione di SM è meno efficace di quella che servirebbe”) e sì alimentata da aporie e contraddizioni su cui occorre intervenire, ma nella contingenza attuale rischia di condurre il sistema stesso al collasso, in assenza di misure straordinarie di contrasto alla deriva.
Il “primum vivere deinde philosophari” può certamente apparire misura tampone, di galleggiamento, ma è oggi essenziale alla sopravvivenza stessa dell’apparato da riformare. Le misure straordinarie di cui abbiamo parlato in un intervento ospitato da QS costituiscono condizione certamente non sufficiente ma necessaria. Per affrontare i nodi irrisolti della SM, che Cavicchi con didascalica precisione elenca, occorre infatti che il sistema esista. Si tratta in altri termini di operare sincronicamente e coerentemente sul “chi” e sul “come”, evitando l’italica abitudine di riformare in assenza (o senza il coinvolgimento attivo) dei riformati, nell’accademico esercizio di elaborazione normativa perfetta ma sistematicamente disapplicata o, peggio, disconfermata.
Tra le numerose suggestioni che “Oltre la 180” ci offre, proviamo ad individuare quattro elementi critici, che a nostro avviso vanno rapidamente affrontati: il mandato della SM, il regionalismo e la necessità di una governance centrale, il capitale umano e la sua organizzazione, il capitale culturale e i percorsi formativi universitari.
In primo luogo va ridefinito l’oggetto e il campo di intervento della SM. La spinta riformatrice che trovò il suo punto di caduta nella Legge del 1978 nasceva dalla lotta anti-istituzionale contro l’Ospedale Psichiatrico, vero moloch da abbattere. A oltre 40 anni di distanza, molte cose sono cambiate, a partire dalle caratteristiche demografiche e sociali della società italiana. Solo per citarne alcune: il progressivo invecchiamento della popolazione, l’aumento delle persone con poli-patologie a lungo decorso e con livelli ridotti di autosufficienza, l’aumento dei nuclei familiari mono-componente, l’incremento delle persone in condizioni di povertà e disoccupazione, l’arrivo di flussi migratori con esposizione prolungata ad eventi traumatici, la diffusione anche nei giovanissimi di sostanze psicoattive, le contraddizioni del sistema penitenziario ed il rapporto perverso con la psichiatria.
Tutti elementi che connotano quella “sofferenza urbana” per la quale la SM costituisce non solo un’area di cura, ma di vera e propria “mediazione sociale”. Mediazione cui è venuto meno, per effetto di alcuni dei fenomeni citati, quel formidabile ammortizzatore sociale costituito dalla famiglia estesa, che da un lato ha esaurito la sua capacità di resilienza, dall’altro non ha ricevuto sufficiente e strategica attenzione dalle politiche pubbliche. Va inoltre considerato il ruolo che la SM può e deve svolgere nei confronti dei c.d. disturbi psichiatrici comuni (ansia, depressione, fobie, ecc.).
L’aumentata domanda di intervento psicoterapeutico non può essere ignorata o affrontata con la delega al privato: il setting “casa della comunità”, il personale con formazione psicoterapeutica, il rapporto con i medici di medicina generale, sono tutti tasselli di un mosaico che deve trovare composizione organizzativa, funzionale al grado di sviluppo che strutture e professionisti hanno nei diversi contesti regionali e locali. Senza voler enfatizzare l’argomento, siamo convinti che dalla capacità di dare risposta a questi bisogni di cura dipenda la tenuta stessa del patto fiduciario tra cittadini e sistema della SM.
Regionalismo e governance centrale
Il tema della differente esigibilità del diritto alla salute a seconda della latitudine di residenza (c.d. regionalismo sanitario) crediamo debba essere la seconda priorità da affrontare. Premettiamo di non essere tra quelli che “si stava meglio quando si stava peggio” o che amano coltivare la malinconica nostalgia di un paradiso perduto. Riteniamo invece che il vero vulnus dell’assetto federalista che il Sistema Sanitario Nazionale ha assunto dal 2001 risieda nell’assenza di una autorevole ed incisiva azione di governo centrale volta a tutelare l’interesse generale. Le proposte in questa direzione non mancano, come pure gli esempi dagli altri Paesi con i quali ci confrontiamo sui tavoli internazionali.
Essenziale sarà estendere l’opera di monitoraggio e verifica oltre i bilanci, guardando agli indicatori di accesso, di performance, di esito. Recuperando, ad esempio, la totale assenza di indicatori relativi alla salute mentale territoriale nel sistema di garanzia dei LEA: crediamo infatti che sia perlomeno riduttivo, se non fuorviante, limitare la valutazione dell’intero sistema di cura per la SM alla rilevazione dei ricoveri ripetuti. L’attuale SISM è un esempio di tecnologia al servizio della qualità dell’assistenza, ancora in larga parte sottoutilizzato.
A nostra conoscenza le analisi che ne derivano – specie quelle che documentano il perseguimento degli obiettivi chiaramente indicati nel Piano d’Azione Nazionale SM – non sono state mai oggetto di discussione con i responsabili regionali della sanità pubblica né hanno mai dato luogo a indicazioni cogenti per il riallineamento delle attività nei contesti locali che si trovano al di sotto dei parametri nazionali. Allo stesso modo, il monitoraggio delle liste d’attesa non include alcuna delle prestazioni erogate dai Dipartimenti di SM. Disporre di informazioni attendibili sui tempi d’attesa per avviare un percorso psicoterapeutico, ad esempio, avrebbe consentito la programmazione di interventi di rafforzamento strutturale del sistema, piuttosto che ricorrere ad interventi occasionali, sostenuti dal discutibile meccanismo dei bonus ed esternalizzati al privato.
Capitale umano e organizzazione
Come Cavicchi sottolinea, non v’è traccia di SM nel PNRR né nel Decreto 77 di ridefinizione dell’assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale. Questa vistosa assenza conferma l’erronea, diffusa convinzione che si tratti di un’area della sanità pubblica “autosufficiente”, perpetuandone in tal modo le caratteristiche di riserva indiana.
È davvero paradossale considerare che, mentre si programma un rilancio di portata storica dell’assistenza territoriale all’insegna della prossimità, della domiciliarità, dell’integrazione sociosanitaria, venga a mancare per lenta, inesorabile consunzione, quel settore della sanità pubblica che da oltre quarant’anni opera secondo questi princìpi. L’atto integrativo, già elaborato da Agenas e trasmesso al Ministero, indica finalmente parametri minimi cui tutte le regioni – pur nella progressività dettata dalle differenti condizioni di partenza – dovranno allinearsi, superando le odiose disparità inter-regionali.
Soprattutto esso individua un modello organizzativo di riferimento articolato su quattro livelli:
1) consultazione ed assistenza primaria (funzione garantita all’interno delle Case di Comunità in stretta collaborazione con gli operatori delle Cure Primarie e comprende valutazioni specialistiche con possibilità di diagnosi ed intervento precoce garantendo appropriatezza di invio ai livelli superiori di trattamento);
2) presa in carico per episodio di cura o per progetti terapeutico-riabilitativi individualizzati a lungo termine, assicurati da Centri di Salute Mentale (CSM), Servizi di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (NPIA) e Servizi per le Dipendenze (SerD);
3) assistenza specialistica in ambito ospedaliero o residenziale, garantito per la SM degli adulti dai Servizi ospedalieri di Diagnosi e Cura (SPDC), dalle strutture residenziali terapeutiche, dai presidi di psichiatria penitenziaria nelle case circondariali;
4) reti specialistiche regionali o interregionali, che comprendono ad esempio i servizi sovrazonali per i Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione e le Residenze per la Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS). Riteniamo che la rapida approvazione di questo atto integrativo possa consentire il superamento di quella anomia organizzativa cui Cavicchi accenna nel suo volume.
Capitale culturale e percorsi formativi universitari
Una questione raramente approfondita, per la quale va dato merito a Cavicchi di aver riaperto il dibattito, è quella che lui chiama del “cane morto”, ossia la posizione sostanzialmente marginale in cui i centri di produzione della cultura hanno relegato il pensiero e l’esperienza basagliana. Non si intende qui rappresentare alcuna posizione apologetica ma sottolineare, come fa Cavicchi, il “doppio binario” sul quale hanno sinora proceduto da un lato il costruttivismo operante in cui si sono sviluppate le conoscenze pratiche dei Servizi, dall’altro i deboli “a priori” sui quali sono state elaborate le conoscenze teoriche che permeano la formazione universitaria dei medici e dei futuri psichiatri.
Come abbiamo riportato in un recente intervento, auspicando una riforma della formazione medica, la formazione specialistica in psichiatria presenta nella situazione attuale peculiari elementi di criticità: l’elaborazione di progetti terapeutico-riabilitativi personalizzati volti a perseguire obiettivi di capacitazione e di inclusione sociale e non solo di contenimento farmacologico dei sintomi, la gestione sia sul piano clinico che su quello sociale di casi complessi multiproblematici, il rapporto tra psichiatria e giustizia per gli autori di reato che presentano disturbi psichiatrici, l’integrazione sociosanitaria e la relazione mai scontata con le politiche sociali degli Enti Locali, il rapporto di collaborazione con il privato sociale e l’associazionismo, la stessa capacità di lavoro in equipe multiprofessionali, sono solo alcune delle aree in cui la formazione accademica non sembra sufficiente. I limitati tempi di presenza presso le reti formative dei servizi territoriali, inoltre, non consentono ai giovani specializzandi di vicariare a questi limiti apprendendo dall’esperienza.
Queste criticità si sono certamente acuite dopo il recente incremento degli accessi alle scuole di specializzazione: un numero di medici più che raddoppiato a fronte di spazi e docenti rimasti identici certo non giova alla trasmissione ed elaborazione delle conoscenze. Va citato peraltro che anche il documento tecnico con cui si apriva la II Conferenza Nazionale sulla SM riportava, tra le proposte: “… uno stretto raccordo col Ministero dell’Università e della Ricerca per definire congiuntamente percorsi formativi adeguati alle esigenze della Salute Mentale territoriale. Formazione obbligatoria da parte delle ASL all’atto di assunzione o inizio collaborazione per chi lavora in salute mentale; formazione congiunta tra operatori ASL e delle Politiche Sociali degli EE.LL. per favorire le sinergie tra competenze sanitarie e sociali a partire dalla pratica”.
Conclusioni
La scelta di queste quattro aree tematiche, all’interno delle numerose suggestioni di cui è ricco il volume di Cavicchi, risponde a un principio enunciato in premessa: cogliere quegli aspetti che, attraverso precise scelte di governo, consentano al sistema di cura per la SM di sopravvivere alla pluriennale incuria istituzionale e alle drammatiche contingenze attuali.
Molti altri sono i temi affrontati che meritano attenzione: si pensi al “caravan serraglio tecnico culturale” delle professioni rappresentate nei servizi e alle difficoltà concrete a lavorare in equipe; al ruolo degli operatori, stretti tra norme, linee-guida, adempimenti, che inevitabilmente inducono posizioni difensiviste, piuttosto che da reali attori del sistema; al “grande problema politico e culturale” del rapporto mal governato tra sistema pubblico e privato, che configura l’esistenza di una “doppia psichiatria”, particolarmente evidente nei processi di neo-istituzionalizzazione residenziale. Su ciascuno di questi punti occorrerà ritornare, con approfondimenti specifici.
Ci piace concludere questo contributo al dibattito ricordando che le crisi presentano sempre una doppia valenza emotiva: passioni tristi per il vecchio che muore ma anche entusiasmo e rinnovata speranza per il nuovo che inizia a delinearsi. Il libro di Cavicchi ci aiuta a scegliere la dimensione emotiva che ci proietta verso il futuro.
Fabrizio Starace
Direttore DSMDP AUSL di Modena
Presidente Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica
Presidente Sezione IIIa Consiglio Superiore di Sanità