Quali sono le risorse economiche riservate alla sanità nel Recovery Plan? A cosa sono destinate? Ci sono risorse destinate alla Salute Mentale? Il Recovery Plan è stato approvato in aprile 2021 ed inviato all’Unione Europea. È articolato in vari capitoli ed uno di questi, quello che si occupa di sanità, è denominato Missione Salute. L’intervento per la Missione Salute ammonta a 20,22 miliardi da spendere nel periodo 2021-2026. Certo dopo oltre un anno di emergenza sanitaria, sociale ed economica, il tema centrale per lo sviluppo del SSN è sicuramente quello della Salute Mentale. Occorrono interventi concreti per affrontare gli effetti psicologici sulle persone; a partire da investimenti in prevenzione e cura nelle strutture pubbliche. Ma nel Pnrr (Piano nazionale di Ripresa e Resilienza) non ce n’è traccia. Ne abbiamo parlato con Andrea Morniroli, amministratore della cooperativa sociale Dedalus di Napoli che insieme a Fabrizio Barca, con cui coordina il Forum Disuguaglianze e Diversità, Fabrizio Starace e Norina Dirindin, il 20 ottobre ore 18.30 sarà in diretta sui canali di Màt per l’incontro “Dal recovery fund alla recovery in salute mentale”.
«Il Pnrr nasce da un percorso senza alcun dialogo sociale – esordisce Morniroli – Al di là della bontà di alcuni principi e contenuti, tutte le sue parti sono state definite senza gli attori sociali della salute. Questa è una grave carenza perché in molte altre questioni che riguardano la ripresa post Covid, c’è un sapere orizzontale coinvolto che spesso ha quelle competenze pragmatiche, tarate su quello che già si sta facendo e si può fare, che fa la differenza. Qui non è così: si parla di salute di prossimità che sicuramente è una cosa importante ma poi mancano i riferimenti concreti su cui agire».
Un necessario punto di partenza sarebbe sicuramente ripristinare tutti quei servizi che sono stati smantellati a livello locale, anche in tema di salute mentale, che consentivano di coniugare la cura con il percorso di presa in carico delle persone in termini di inclusione sociale, abitativa e lavorativa. Per Morniroli, le case di comunità non sono soltanto case di salute ma devono essere luoghi di prossimità che in una qualche maniera tengono conto del fatto che la salute si inserisce in un processo molto più ampio, che riguarda le relazioni di contesto, la possibilità di avere luoghi aggregativi sociali e di lavoro. «Ciò comporta un ripristino degli interventi territoriali a carattere socio sanitario: vanni ripristinati i Sert, le case di famiglie sul territorio per la salute mentale, vanno fatti interventi in cui la cura si accompagna alla possibilità di autonomia economica, finanziaria e abitativa, investendo sulla prevenzione – spiega Morniroli – Investire sulla prevenzione significa migliore e più buona spesa e minor spesa pubblica, perché molto spesso prevenire è più conveniente dal punto di vista economico. Non solo migliora la vita delle persone ma può fare la differenza, perché ad esempio può tradursi nel dare migliori servizi di genere, rivolti alle donne; i centri antiviolenza che diventano sistema e non eccezione e così via, verso tutto quello che può essere una salute più vicina ai territori. Occorre però riportare l’idea di cura dentro le comunità».
In questi anni la cura è stata relegata nell’ambito del contenimento e dell’istituzionalizzazione, oppure scaricata sulle famiglie e quindi sulle donne visto che il nostro Paese è ancora attraversato dalle fortissime asimmetrie che tutti conosciamo. Tutti i problemi relativi alla gestione dei tempi di cura e di lavoro sono stati scaricati sulle donne per non citare altri casi, peggiori, dove l’idea di cura è stata messo a profitto, vedasi certi casi esasperati di Rsa. «Abbiamo così un territorio a macchia di leopardo in cui magari ci sono sistemi di salute mentale territoriali che dimostrano che si possono fare a meno dei manicomi o comunque dell’istituzionalizzazione e a fianco di questi altri sistemi che invece nutrono l’idea del manicomio e dell’istituzionalizzazione – dice Morniroli – Quindi occorre operare un ribaltamento, puntando su una responsabilità pubblica e collettiva incentrata sull’inclusione e partendo da quelle esperienze che in questi anni hanno dimostrato che si può fare. L’interazione pubblico e privato deve tornare ad essere quella che ha permesso lo svuotamento dei manicomi, nella consapevolezza che non si può avere integrazione dove vige l’idea di un pubblico che surroga le proprie responsabilità nella ricerca di manodopera a basso costo di un terzo settore che deve gestire politiche altrui come mero esecutore. Bisogna tornare a un’integrazione dove l’attenzione pubblica sia percepita come parte di una gestione collettiva, dove tutti gli attori in gioco sono riconosciuti come co-attori di co-progettazione».
La pandemia non ha inventato nulla, ha solamente alimentato e allargato le criticità precedenti sottolineando l’importanza di avere un sistema sanitario pubblico, che ha resistito nonostante venisse da anni di tagli. Morniroli sottolinea come in una società come la nostra, si debba continuare ad avere misure di sostegno al reddito, diffuse, larghe: «Strumenti come il Reddito di emergenza così come lo stesso Reddito di cittadinanza, sono strumenti per mettere un po’ più “in pari” chi è troppo in dispari per fare un investimento su di sé o sulla propria comunità – conclude – Ci sono persone che in questo momento non possono lavorare o trovare un lavoro e quindi non vanno abbandonate. Nel primo lockdown sono rimasti fuori dalle forme di ammortizzazione sociale quasi 6 milioni e mezzo di lavoratori. Se non le riconosciamo, si vanno ad innescare meccanismi di peggioramento della salute di queste persone; quando il problema è cosa mettere sul tavolo da mangiare la sera, ogni bisogno immateriale, compreso quello di salute, viene messo in secondo piano. Rischiamo così di avere una fascia di popolazione che oltre a sentirsi abbandonata e non riconosciuta, si incattivisce, diventa rancorosa e mira a farsi incantare dalle sirene delle derive autoritarie dell’uomo forte al comando, con pericolosi scivolamenti».