“Della dignità dell’uomo”
A 24 anni, Pico della Mirandola scrisse questa prolusione per difendere davanti al Papa, nel 1487, ” le novecento tesi” allo scopo di promuovere una congiunzione tra mistica ebraica e teologia cristiana, con tesi neoplatoniche, in una dinamica tutta rinascimentale di riscoperta del valore umano.
Così in fondo a Màt, in fondo all’Emilia, a Mirandola, troviamo quest’incontro a cura dell’Associazione Penso Positivo, organizzazione di volontariato, Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell’USL di Modena e Agenzia Sanitaria e Sociale Regionale dell’Emilia-Romagna per promuovere “L’approccio dialogico per l’integrazione interistituzionale e interprofessionale” all’interno di un progetto regionale in corso di sperimentazione nel Programma Adolescenza.
La sperimentazione in corso è iniziata nel 2016, è una prevenzione di Benessere e Cura rivolta per il momento ai comuni di Scandiano, Lugo, Parma/Fidenza. Una equipe del Frignano svolge il ruolo di “osservatore” assieme al Comune di Bologna.
E’ stata fatta una formazione situata fatta da tutor finlandesi, in quanto l’OPEN DIALOGUE è un tipo di Approccio terapeutico nato a Tornio (Finlandia), da un’equipe ispirata da Jaakko Seikkula, alla metà degli anni ’90 e ora in sperimentazione con ottimi risultati al Centro di Salute Mentale di Pavullo nel Frignano.
Quando un giovane, dotto e conte di Mirandola e Concordia, prefigura una cultura d’intesa e non di conflitto, di possibilità del molteplice e non di chiusura nell’identità, di fronte si trova l’opposizione totale; le sue idee così precorritrici per quei tempi, idee di pace, non sono state accolte da InnocenzoVIII e chissà quante altre autorità temporali e spirituali sono state irritate da questo tipo di discorsi perché tutte convinte di possedere, in via del tutto privilegiata, l’unica verità.
Allora, dopo più di cinque secoli, dalle rovine del maniero di Pico, si fa avanti uno stile dialogico che pare abbia dovuto attraversare tante barriere fisiche e immateriali dell’umanità, dalla schiavitù al totalitarismo, fino al consumismo, per calare poi (in maniera del tutto iperbolica), dal Nord, dalla Lapponia, dalla solitudine e freddo boreali il desiderio d’incontro e di condivisione di esperienze accumulate avendo come fondamento l’ascolto dell’altro, perché, come dice Pico, non c’è niente e nessuno che non sia degno nella creazione di Dio. La conoscenza, prima forma d’amore, è la chiave che schiude le porte dell’incontro.
Incontro che è avvenuto nella sala consiliare del Comune, in una zona tutta ricostruita dopo il terremoto del 2012. Il dott. Giuseppe Tibaldi, formatore in Open Dialogue, introducendo ha invitato gli accorsi a presentarsi in modo che già si sperimentasse la modalità del “Dialogo Aperto”, in cui ogni voce ha diritto di essere ascoltata.
Molte le mamme di adolescenti presenti, sempre attente al benessere dei figli, inoltre membri dell’Associazione “Penso Positivo”, assessori dei comuni della “Bassa” interessati a capire quali nuove opportunità si aprano per il territorio, alcuni anche come genitori; infine operatori socio-sanitari.
Mancavano purtroppo le rappresentanti regionali, ma il gruppo di relatori ha sapientemente illustrato il progetto regionale di governance proprio perché nello spirito dialogico tutto viene condiviso con trasparenza.
Avevamo già incontrato l’Open Dialogue nell’edizione di Màt 2017, in cui Tibaldi e Mazzi ci avevano spiegato come venisse applicato in ambito psichiatrico per curare soprattutto esordi di gravi crisi psichiche.
In questa nona edizione abbiamo imparato che l’O.D. è un approccio plurale che si adatta ad affrontare altri tipi di intervento in ambito sempre di cura alla persona.
Come ci spiegavano le dott. Caloro e Ricci, si sono scoperte a occuparsi di cose simili pur operando separatamente, l’una a livello psichiatrico, l’altra a livello socio-assistenziale; così, invece di lavorare a ”silos paralleli”, hanno cominciato a collaborare. Infatti, come dice il dott. Tibaldi, “In genere si lotta sui confini, si sprecano molte energie per stabilire di chi sia la competenza, invece è possibile imparare a lavorare insieme non in astratto, ma sui problemi specifici”.
Con l’approccio dialogico si ricostruisce la multidimensionalità della vita quotidiana e la persona che ha bisogno non è costretta a “dividersi” per affrontare diversi uffici-ambulatori per risolvere differenti aspetti della sua difficoltà, ma incontra un team, una squadra che lavora in rete e non propone soluzioni già confezionate, costruisce invece con l’interessato e le persone connesse, una soluzione condivisa secondo il motto: “NOTHING ABOUT US WITHOUT US”.
Quante volte ci si sente dire nel nostro contatto con la burocrazia: “Ha sbagliato ufficio, si rivolga all’ente..”, come dice Emanuela Ricci: “Il tema importante è la presa in carico.
L’Open Dialogue è rivoluzionario, cambia il setting perché le persone vengono coinvolte da subito “.
La Regione ha avviato il progetto nel 2016 e nel 2019 si conclude la sperimentazione. “E’ stato necessario mettere in discussione gli orari di servizio, i cartellini, per adattarsi al lavoro interdisciplinare. Ora ci si dà termini temporali, ma all’inizio ci si metteva attorno a un tavolo finché serviva”.
Potrebbe apparire che questo metodo di lavoro sia troppo impegnativo e costoso. In realtà, a fronte di un maggior sforzo e investimento iniziali, le soluzioni arrivano con più efficacia e stabilità proprio perché si è speso più tempo inizialmente per la condivisione, inoltre c’è meno rischio di “burn-out” perché si abbassa l’ansia da prestazione e si condivide la preoccupazione. Inoltre, come dice la Ricci, “si portano a casa pratiche utili anche nella propria famiglia” in cui in genere si è più emotivi e meno professionali. S’impara ad ascoltare ad esempio come genitore. “5 minuti d’ascolto non li rispettavo, anche parlare per 5 minuti non è facile riuscendo ad esprimersi”
Riprende la Caloro: “Dovendo usare le stesse parole di chi parla nel rispondere, sono costretta ad ascoltare”.
Tibaldi si è rivolto poi alle mamme convenute parlando dei “Dialoghi Anticipatori” che possono essere uno strumento utile sul territorio.
Si tratta di chiedersi come ci si immagina la situazione di crisi di un adolescente fra un anno. Tutte le persone coinvolte: educatori, familiari, assistenti sociali, formatori sportivi, ecc..dicono la loro per contribuire a raggiungere quello scenario. Due formatori preparano l’incontro ma non vi partecipano. Ogni dialogo è estremamente personalizzato, persone che non ci si aspetta possono dare soluzioni utili.
Dopo un anno ci si ritrova per vedere come è andata e non è colpa di qualcuno se c’è qualcosa che non ha funzionato.
L’ approccio dialogico non prescinde da tutte le tecniche efficaci che possono essere utilizzate, è una cornice democratica, l’unica invariabile, dice Mazzi, è che “la causa sistemica della sofferenza è dovuta alla mancanza di ascolto e di comprensione”.
Diviene importante fare cultura diffondendo questa pratica attraverso formatori secondo una specie di gemmazione”.
Occorre chiederci che tipo di società vogliamo.
Per mantenere una dignità umana (come diceva Pico), “ci vuole l’umiltà di comprendere che o ci si salva insieme o diviene difficile fare passi avanti”. Infatti il lavoro che il dialogo aperto prevede è creativo e molto impegnativo, non è competitivo, è basato sulla fiducia, mentre in una struttura gerarchica le persone sono inibite.
Un ingrediente fondamentale perché ci sia FIDUCIA è la TRASPARENZA.
Ecco che ci può essere capacità di scelta, rapporti paritari, condivisione e democrazia.
Forse così silenziosamente, senza proclami, ascoltandosi, ci si avvicina a quel modello di pace, di convivenza delle diversità , di ricomposizione dei frammenti che potrà far risplendere la luce della comprensione.